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Singoli comportamenti non possono essere qualificati come mobbing, per pronuncia risarcitoria

Il comportamento datoriale può considerarsi mobbizzante ove lo stesso, anche se in astratto lecito, si riveli univocamente sorretto da scopi emulativi e cioè dall’unica (illecita) finalità di condurre alla progressiva emarginazione della vittima dall’ambiente lavorativo 

secondo la concorde giurisprudenza civile e amministrativa, in assenza di una definizione normativa, per mobbing verticale nello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti in-tenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore stesso, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica. 

Pertanto, ai fini della configurabilità di una siffatta condotta lesiva sono rilevanti: a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (cfr. ad es. Cass. sez. lavoro n. 3785 del 2009 e VI sez. n. 856 del 2012). 

Conseguentemente l’accertamento della sussistenza del c.d. danno da mobbing – appunto derivante da una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione e finalizzata all’emarginazione del lavoratore in modo da concretare una lesione della sua integrità psicofisica e della sua personalità – comporta una valutazione complessiva degli episodi lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, della connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta. (cfr. VI sez. n. 4738 del 2008). 

I criteri interpretativi ora enunciati comportano in sostanza che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo dal complesso delle condotte datoriali poste in essere sul luogo di lavoro. 

Il che, come ben posto in luce dal T.A.R., è quanto è dato registrare nella vicenda all’esame. 

In essa infatti emergono senz’altro a giudizio del Collegio incertezze operative poste in essere dall’Amministrazione (non soltanto a livello territoriale) nonchè una persistente marcata lacunosità dei comportamenti gestionali tenuti nel tempo dai responsabili del commissariato succedutisi in carica. 

In definitiva nella vicenda vengono in rilievo a più riprese scelte espressive di adesione a canoni organizzativo/gestionali forieri di sicure disfunzioni e in definitiva non abbastanza attente a quelle fondamentali esigenze di efficienza operativa che costantemente contraddistinguono l’operato delle strutture della Polizia di Stato. 

E tuttavia la non adeguata gestione di una pur complessa situazione ambientale da parte delle Autorità locali di Polizia nonchè da parte delle strutture ministeriali centrali non trasmoda mai – alla luce di quanto è dato inferire dagli episodi richiamati dal ricorrente – in un disegno unitario, premeditato o almeno genericamente volontario, volto alla emarginazione o discriminazione dell’odierno appellante. 

a cura di Sonia Lazzini 

decisione  numero 253  del 20 febbraio 2013 pronunciata dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana

Sentenza integrale

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso in appello n. 35 del 2012, proposto da
RICORRENTE EDOARDO
rappresentato e difeso dall’avvocato Pietro Maria Mela ed elettivamente domiciliato in Palermo, corso Camillo Finocchiaro Aprile n. 165 presso lo studio dell’avvocato Valerie Vaccarella;
c o n t r o
il MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato di Palermo presso i cui uffici in via A De Gasperi n. 81 è domiciliato per legge;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – sezione staccata di Catania (sez. III) – n. 2136 del 31 agosto 2011;
Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio dell’Amministrazione;
Vista la memoria prodotta dall’appellante a sostegno delle proprie difese;
Relatore il consigliere Antonino Anastasi; uditi, alla pubblica udienza del 14 dicembre 2012 l’avv. P. M. Mela per l’appellante e l’avv. dello Stato Pollara per l’amministrazione appellata;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
Il sig. Edoardo Ricorrente, assistente capo della Polizia di Stato in servizio presso il commissariato di Piazza Armerina, si è rivolto al Tribunale di Caltanissetta per vedersi riconosciuto il risarcimento dei danni morali e materiali arrecati dal comportamento asseritamente persecutorio tenuto nei suoi confronti dall’Amministrazione.
Con sentenza 466/2009 l’adito Giudice ordinario ha declinato la giurisdizione.
L’interessato ha quindi ritualmente riproposto la relativa domanda avanti al T.A.R. Catania, analiticamente rappresentando gli episodi e le circostanze nonchè i comportamenti di colleghi e superiori attraverso i quali avrebbe nel tempo preso corpo un premeditato disegno finalizzato alla vessazione del dipendente e alla lesione della sua onorabilità, personale e professionale.
In particolare il ricorrente ha evidenziato che, a suo giudizio, all’origine della vicenda stavano episodi verificatisi nell’agosto del 1998, allorchè la sua utenza telefonica privata fu bersagliata da numerose telefonate anonime, di contenuto minaccioso ed intriso di volgarità.
Avendo egli denunciato l’accaduto all’Ufficio di appartenenza, dalle successive indagini è emerso che gran parte delle telefonate erano state effettuate dalla consorte di un appartenente al commissariato (sovrintendente V. S.), in seguito condannata per molestie e ingiurie ai sensi dell’art. 444 c.p.p..
La condanna della molestatrice, lungi dal ristabilire la serenità nel commissariato, innescava invece – secondo quanto prospettato in ricorso – un comportamento persecutorio dell’Amministrazione nei confronti dell’interessato, comportamento scandito:
– da primo procedimento disciplinare conclusosi con l’irrogazione di “richiamo scritto”, con contestuale sostanziale demansionamento;
– dall’avvio di procedimento di trasferimento d’ufficio per incompatibilità ambientale del ricorrente e della moglie Brunella Pergola (agente scelto della Polizia di Stato), che non veniva però condotto a termine dal Ministero;
– da un secondo procedimento per il trasferimento d’ufficio, avviato dal Questore di Enna sul quale, tuttavia, il Ministero non ha assunto alcuna decisione;
– dall’avvio di un ulteriore procedimento disciplinare, conclusosi però con l’archiviazione.
In un contesto così caratterizzato, anche le ripetute visite fiscali cui l’assistente risulta essere stato sottoposto sarebbero state sintomatiche di atteggiamento vessatorio nei suoi confronti.
Si costituì in quel grado del giudizio la resistente Amministrazione dell’interno, contestando in fatto e in diritto quanto ex adverso dedotto.
Con la sentenza in epigrafe indicata l’adito Tribunale ha respinto il ricorso, ritenendo in sostanza indimostrata – alla stregua di una analitica disamina degli episodi richiamati dall’assistente Ricorrente – l’esistenza dell’allegato unitario disegno persecutorio.
La sentenza è stata impugnata con l’atto di appello all’esame dal soccombente il quale ne ha chiesto l’integrale riforma, con contestuale accoglimento della domanda risarcitoria.
Si è costituita in resistenza l’Amministrazione, la quale ha depositato documenti.
Parte appellante ha presentato memorie, insistendo nelle rassegnate conclusioni.
All’udienza del 14 dicembre 2012 l’appello è stato trattenuto in decisione.
D I R I T T O
L’appello non è fondato e va pertanto respinto, con integrale conferma della gravata sentenza.
Come è noto, secondo la concorde giurisprudenza civile e amministrativa, in assenza di una definizione normativa, per mobbing verticale nello svolgimento del rapporto di lavoro subordinato deve intendersi una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore stesso, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica.
Pertanto, ai fini della configurabilità di una siffatta condotta lesiva sono rilevanti: a) la molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) l’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio. (cfr. ad es. Cass. sez. lavoro n. 3785 del 2009 e VI sez. n. 856 del 2012).
Conseguentemente l’accertamento della sussistenza del c.d. danno da mobbing – appunto derivante da una condotta del datore di lavoro sistematica e protratta nel tempo, connotata dal carattere della persecuzione e finalizzata all’emarginazione del lavoratore in modo da concretare una lesione della sua integrità psicofisica e della sua personalità – comporta una valutazione complessiva degli episodi lamentati dall’interessato, i quali devono essere considerati in modo unitario, tenuto conto da un lato dell’idoneità offensiva della condotta datoriale, come desumibile dalle sue caratteristiche oggettive di persecuzione e discriminazione e, dall’altro, della connotazione univocamente emulativa e pretestuosa della richiamata condotta. (cfr. VI sez. n. 4738 del 2008).
I criteri interpretativi ora enunciati comportano in sostanza che la ricorrenza di un’ipotesi di condotta mobbizzante deve essere esclusa quante volte la valutazione complessiva dell’insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo dal complesso delle condotte datoriali poste in essere sul luogo di lavoro.
Il che, come ben posto in luce dal T.A.R., è quanto è dato registrare nella vicenda all’esame.
In essa infatti emergono senz’altro a giudizio del Collegio incertezze operative poste in essere dall’Amministrazione (non soltanto a livello territoriale) nonchè una persistente marcata lacunosità dei comportamenti gestionali tenuti nel tempo dai responsabili del commissariato succedutisi in carica.
In definitiva nella vicenda vengono in rilievo a più riprese scelte espressive di adesione a canoni organizzativo/gestionali forieri di sicure disfunzioni e in definitiva non abbastanza attente a quelle fondamentali esigenze di efficienza operativa che costantemente contraddistinguono l’operato delle strutture della Polizia di Stato.
E tuttavia la non adeguata gestione di una pur complessa situazione ambientale da parte delle Autorità locali di Polizia nonchè da parte delle strutture ministeriali centrali non trasmoda mai – alla luce di quanto è dato inferire dagli episodi richiamati dal ricorrente – in un disegno unitario, premeditato o almeno genericamente volontario, volto alla emarginazione o discriminazione dell’odierno appellante.
In sostanza, il materiale probatorio in atti ove rettamente interpretato porta decisamente ad escludere l’esistenza di un sovrastante disegno persecutorio, tale da piegare alla sue finalità i singoli atti cui viene riferito.
Sintomatica in tal senso è ad esempio la circostanza, opportunamente evidenziata nelle relazioni dell’Amministrazione, che il dott. C. – pur indicato dal ricorrente come partecipe della condotta mobbizzante quale dirigente pro tempore del commissariato di Piazza Armerina – abbia in realtà poi fatto parte di quella Commissione la quale all’unanimità archiviò il secondo procedimento disciplinare a carico dell’appellante.
Il che ovviamente depotenzia gravemente la tenuta complessiva delle argomentazioni difensive svolte dall’appellante, non essendo possibile comprendere per quali ragioni il superiore accusato di mobbing si sia poi in concreto espresso per il proscioglimento disciplinare del dipendente asseritamente da lui perseguitato.
Analogamente, un sanitario della Polizia di Stato in una occasione è accusato di essere sostanzialmente compartecipe dell’atteg-giamento complessivamente emarginante mentre in un episodio successivo avrebbe rifiutato di effettuare una visita fiscale ripetutamente richiesta ai danni dell’appellante e quindi avrebbe agito in suo favore o a sua tutela.
Tanto chiarito circa l’inesistenza del requisito costitutivo inerente il disegno persecutorio, deve poi comunque, sotto un connesso profilo, ricordarsi che i singoli comportamenti non possono essere qualificati come costitutivi di mobbing, ai fini della pronuncia risarcitoria richiesta, se è dimostrato in giudizio che vi è una ragionevole ed alternativa spiegazione al comportamento datoriale.
In altri termini il comportamento datoriale può considerarsi mobbizzante ove lo stesso, anche se in astratto lecito, si riveli univocamente sorretto da scopi emulativi e cioè dall’unica (illecita) finalità di condurre alla progressiva emarginazione della vittima dall’ambiente lavorativo.
Invece nel caso all’esame, come analiticamente ed efficacemente dimostrato dalla sentenza impugnata, i comportamenti tenuti in concreto dall’Amministrazione nei confronti dell’odierno appellante trovano il loro fondamento in situazioni e circostanze che di volta in volta ben potevano giustificare ad avviso del Collegio – alla stregua di un criterio medio di ragionevole riscontro ab externo – l’esercizio del potere disciplinare o l’adozione di proposte organizzative volte in definitiva ad evitare la ulteriore compromissione del funzionamento dell’ufficio.
In particolare, per quanto riguarda il c.d. secondo procedimento disciplinare risulta da un lato che lo stesso originò da un episodio obiettivamente suscettibile (ove considerato nella sua materialità) di reazione da parte dell’Amministrazione; dall’altro che lo stesso procedimento – proprio in seguito alle efficaci difese svolte in quella sede procedurale dall’odierno appellante – si è concluso con l’archiviazione della incolpazione: il che dimostra appunto la serenità del giudizio finale formulato dalla commissione di disciplina e quindi in definitiva l’assenza di intenti persecutori in capo all’Amministrazione complessivamente considerata.
Per quanto infine riguarda il c.d. terzo procedimento disciplinare, lo stesso appellante in effetti non sembra contestare la sussistenza a suo carico di elementi negativi comunque valutabili in chiave disciplinare, quanto piuttosto afferma che in quella occasione l’Ammini-strazione avrebbe agito nei suoi confronti con particolare severità, e cioè con un atteggiamento rigoroso non tenuto in altre consimili evenienze.
Questa impostazione ricostruttiva non trova però ad avviso del Collegio riscontro negli atti, i quali comprovano come l’autorità deliberante – una volta ricevuta la segnalazione disciplinare – abbia invece tenuto in adeguato conto le giustificazioni formulate dall’assistente pervenendo all’irrogazione di una sanzione più tenue rispetto a quella originariamente ipotizzata.
Quindi anche in questo caso il concreto dipanarsi della vicenda amministrativa induce a ritenere che i rilievi formulati dall’appellante circa l’esistenza di un disegno persecutorio siano piuttosto il frutto di sentimenti di sfiducia personale e di isolamento polemico obiettivamente sganciati dalla realtà.
Sulla scorta delle considerazioni che precedono l’appello va quindi conclusivamente respinto, con conferma della sentenza impugnata.
Ogni altro motivo od eccezione può essere assorbito in quanto ininfluente ed irrilevante ai fini della presente decisione.
Le spese di questo grado del giudizio possono essere compensate, avuto riguardo a talune perplessità dell’azione amministrativa.
P. Q. M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando, respinge l’appello in epigrafe.
Le spese di questo grado del giudizio sono compensate.
Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’Autorità amministrativa.
Così deciso in Palermo il 14 dicembre 2012 dal Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio, con l’intervento dei signori: Riccardo Virgilio, Presidente, Antonino Anastasi, estensore, Guido Salemi, Pietro Ciani, Giuseppe Mineo, Componenti.
F.to Riccardo Virgilio, Presidente
F.to Antonino Anastasi, Estensore
Depositata in Segreteria
20 febbraio 2013

 

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