passaggio tratto dalla decisione numero 424 del 30 aprile 2013 pronunciata dalla Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana
Sentenza integrale
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REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A
sul ricorso in appello n. 1007/2012 proposto da
RICORRENTE SUD, società a responsabilità limitata in liquidazione,
in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Alessandro Arcifa ed elettivamente domiciliata in Palermo, via Libertà n. 171, presso lo studio dell’avv. Giovanni Immordino;
c o n t r o
il CONSORZIO PER L’AREA DI SVILUPPO INDUSTRIALE DEL CALATINO, in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Polizzotto ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Nunzio Morello n. 40, presso lo studio dello stesso;
l’ISTITUTO REGIONALE PER LO SVILUPPO DELLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE – I.R.S.A.P., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall’avv. Stefano Polizzotto ed elettivamente domiciliato in Palermo, via Nunzio Morello n. 40, presso lo studio dello stesso;
l’ASSESSORATO ALLE ATTIVITÀ PRODUTTIVE DELLA REGIONE SICILIA, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituito in giudizio;
per la riforma
della sentenza del T.A.R. per la Sicilia – sezione staccata di Catania (sez. II) – n. 1374/2012 del 29 maggio 2012.
Visto il ricorso con i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio del Consorzio per l’area di sviluppo industriale del Calatino, in liquidazione, e dell’IRSAP;
Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese;
Visti gli atti tutti della causa;
Relatore il Consigliere Vincenzo Neri;
Uditi, altresì, alla camera di consiglio del 6 marzo 2013, l’avv. G. Immordino, su delega dell’avv. A. Arcifa, per la società appellante e l’avv. C. Comandè, su delega dell’avv. S. Polizzotto, per gli appellati;
Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue:
F A T T O
L’odierna appellante, dopo una lunga vicenda processuale innanzi al giudice ordinario, proponeva al TAR Sicilia, sede di Catania, giudizio di ottemperanza richiedendo contestualmente la condanna del Consorzio ASI del Calatino al pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato.
Il giudice di primo grado accoglieva il ricorso per l’ottem-peranza, facendo obbligo al Consorzio di dare esecuzione alla sentenza della Corte di Appello con contestuale nomina di un commissario ad acta, ma rigettava la domanda di fissazione di una somma di denaro ai sensi dell’articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a. ritenendo la disposizione da ultimo citata applicabile solo nel caso di esecuzione di giudicato relativo ad un facere infungibile e non anche nell’ipotesi di ottemperanza alle sentenze di condanna al pagamento di una somma di denaro.
Proponeva appello l’RICORRENTE SUD chiedendo la riforma del capo di sentenza che aveva escluso la condanna ai sensi del già citato articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a.
Si costituiva in giudizio il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale del Calatino, gestione separata IRSAP, chiedendo il rigetto dell’appello e, in subordine, di considerare le condizioni economiche nelle quali versa il Consorzio medesimo.
Si costituiva altresì l’IRSAP eccependo il suo difetto di legittimazione passiva e, nel merito, insistendo per il rigetto dell’appello.
Alla camera di consiglio del 6 marzo 2013 l’appello passava in decisione.
D I R I T T O
- Occorre preliminarmente esaminare la dedotta questione di inammissibilità del ricorso avanzata dall’IRSAP per difetto di legittimazione passiva.
Per la decisione dell’eccezione occorre rilevare:
a) che il giudizio di ottemperanza innanzi al giudice di primo grado è stato proposto nel 2011, con ricorso recante n. 2968/2011, prima della pubblicazione della legge regionale n. 8/2012 di riforma dei consorzi e istitutiva dell’IRSAP;
b) che l’appello è stato notificato sia al Consorzio ASI del Calatino in liquidazione sia all’IRSAP, ente quest’ultimo istituito dalla legge regionale 8/2012 per svolgere i compiti prima demandati ai Consorzi;
c) che, ai sensi dell’articolo 19, comma 4, l.r. 8/2012 i Commissari devono chiudere le operazioni di liquidazione entro 180 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge con l’approvazione del bilancio finale di liquidazione e la definizione delle posizioni attive e passive della gestione liquidatoria;
d) che, trascorso detto termine, la gestione dei singoli Consorzi per le aree sviluppo industriale transita all’Istituto con le modalità previste dall’articolo 19, comma 8, l.r. 8/2012 e, in particolare, i rapporti attivi e passivi dei soppressi Consorzi per le aree di sviluppo industriale transitano in apposite gestioni a contabilità separata presso l’Istituto tale da garantire ed assicurare l’assoluta distinzione delle masse patrimoniali, dei rapporti di credito e delle passività di ogni singolo Consorzio soppresso, e ciò sino alla definitiva chiusura delle operazioni di liquidazione;
e) che, sempre per la disposizione da ultimo citata, le gestioni separate di ogni singola liquidazione di cui al presente comma sono amministrate, previo controllo e vigilanza dell’Assessorato regionale delle attività produttive e, per i profili tecnico-contabili, dell’Assessorato regionale dell’economia, ai fini della celere conclusione delle operazioni di liquidazione, dal direttore generale dell’Istituto.
Alla luce delle premesse ora riportate occorre affermare che il giudizio di primo grado è stato correttamente proposto e che anche il giudizio di appello è stato ritualmente avanzato nei confronti del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale del Calatino, in liquidazione, che naturalmente non potrà sottrarsi all’esecuzione della sentenza assunta nel presente giudizio di ottemperanza perché, come affermato dalla giurisprudenza (seppure con riferimento ad altra fattispecie) il processo instaurato nei confronti dell’originario debitore, prima della sua soppressione, prosegue tra le parti originarie, salva l’ipotesi di intervento o chiamata in giudizio dell’ente subentrante nella posizione di successore a titolo particolare (si veda, per l’ipotesi di passaggio dalle USL alle AUSL, Cons. St., VI, 21 settembre 2010 n. 6995).
- Con riferimento alla legittimazione passiva dell’IRSAP, a giudizio del Collegio, il chiaro disposto dell’articolo 19, comma 8, l.r. 8/2012 dimostra che la gestione separata istituita presso l’IRSAP non è soggetto diverso dal neo costituito ente ma è ‘semplicemente’ una forma di separazione di alcuni rapporti attivi e passivi, rispetto al patrimonio principale dell’ente.
In altri termini, come in ogni forma di separazione dei patrimoni, pur nell’unicità del soggetto titolare, vi saranno delle distinte masse di creditori e debitori che potranno soddisfarsi ognuna sul patrimonio di riferimento. Tale conclusione risulta avvalorata anche dal confronto con gli istituti di diritto civile: la creazione da parte dei coniugi di un fondo patrimoniale (ipotesi appunto di patrimonio separato) o la istituzione da parte di una società di un patrimonio destinato ad uno specifico affare (articolo 2447 bis e segg. c.c.) non vale a costituire un soggetto diverso dai coniugi o dalla società ma semplicemente a tenere separati determinati beni e rapporti dal patrimonio principale in attuazione di quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 2740 c.c. e in deroga alla regola generale prevista al primo comma dell’articolo da ultimo citato.
Per tali ragioni l’eccezione di difetto di legittimazione passiva dell’IRSAP deve essere respinta.
3.1. Per la decisione della domanda, giova premettere qualche breve cenno in ordine alla natura giuridica dell’istituto invocato dalla parte.
Come è noto la dottrina, prevalentemente di matrice civilistica, ha individuato nell’azione risarcitoria lo strumento per ottenere il risarcimento del danno collegato all’inadempimento di un’obbligazione (c.d. responsabilità contrattuale) o all’esistenza di un danno ingiusto cagionato da un fatto doloso o colposo ex articolo 2043 c.c. (c.d. responsabilità aquiliana) che deve essere allegato e provato (Cass., SU, 11 novembre 2008 n. 26972).
Diverso invece è il concetto di pene private che, per autorevole dottrina, sono quelle minacciate e applicate dai privati nei confronti di altri privati e che trovano la loro fonte o in un contratto – come per le misure disciplinari applicate dall’associazione agli associati o dal datore di lavoro ai lavoratori – oppure in uno status, come nel caso delle punizioni inflitte dai genitori ai figli minori. Con riferimento a tale categoria parte della dottrina ritiene che esse non possano trovare riconoscimento nel nostro ordinamento perché sarebbero in contrasto con il principio di uguaglianza, mentre altri autori, pur sottolineandone il carattere eccezionale, reputano utile tale istituto perché idoneo ad integrare il sistema risarcitorio basato esclusivamente sulla riparazione del pregiudizio effettivamente subito e tendenzialmente impermeabile a qualsiasi valutazione di tipo sanzionatorio.
Seppure non sempre tale distinzione è emersa chiaramente in dottrina, giova rammentare che gli studiosi hanno elaborato anche la categoria delle sanzioni civili indirette qualificate come misure afflittive di carattere patrimoniale previste dalla legge ed applicate dall’au-torità giudiziaria. Le sanzioni civili indirette, così come le pene private, presuppongono la violazione di una regola ma le prime si distinguono dalle seconde perché la sanzione viene inflitta dal giudice e non dalla stessa parte privata (come invece avviene per le pene private).
Infine, appare necessario qualche breve cenno alla categoria dei danni punitivi, che negli ordinamenti di stampo anglosassone hanno lo scopo di punire il danneggiante per un fatto grave e riprovevole aggiungendosi alle somme riconosciute al danneggiato per risarcire il pregiudizio effettivamente subito. In questo caso nel giudizio risarcitorio il giudice, dopo avere accertato l’esistenza di un effettivo pregiudizio subito dal danneggiato, condanna l’autore dell’illecito al pagamento di una somma ulteriore a titolo “punitivo” sia per sanzionare il suo comportamento sia per dissuadere gli altri consociati dal tenere condotte analoghe (la c.d. funzione general-preventiva svolta dalla pena nel diritto penale). Come è noto l’opinione tuttora prevalente esclude che nel nostro ordinamento possano avere cittadinanza giuridica i danni punitivi e conseguentemente la Corte di cassazione ha sempre rigettato le istanze di delibazione delle sentenze straniere che prevedevano una condanna al pagamento di somme di denaro a tale titolo (Cass., 19 gennaio 2007 n. 1183; Cass., 8 febbraio 2012 n. 1781).
3.2. Venendo al merito dell’appello, recente dottrina ha evidenziato la necessità di rivisitare i tradizionali insegnamenti perché nel nostro ordinamento esistono già delle previsioni normative che prevedono la condanna al pagamento di una somma di denaro senza collegarla all’accertamento di un danno effettivamente subito: l’articolo 125 d. lgs. 10 febbraio 2005 n. 30, oltre al pregiudizio subito dal danneggiato, fa riferimento ai “benefici realizzati dall’autore della violazione” e, sotto altro aspetto, l’articolo 158 l. 22 aprile 1941 n. 633 impone di tener conto degli utili realizzati in violazione del diritto. Tali previsioni, anche in una prospettiva di analisi economica del diritto, potrebbero generare benefici effetti sul sistema complessivamente considerato eliminando (o fortemente riducendo) la convenienza per il danneggiante a tenere certe condotte: è stato dimostrato, infatti, che il danneggiante a volte assume scientemente la decisione di tenere determinate condotte illecite e dannose perché, in considerazione degli alti costi dei processi e di una certa difficoltà per i soggetti danneggiati ad instaurare i giudizi, è per il danneggiante più conveniente risarcire chi intraprende il giudizio piuttosto che rispettare (nei confronti di tutti) la regola imposta dall’ordinamento.
3.3. Con specifico riferimento poi alla disposizione contenuta nell’articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a., va rilevato che la dottrina discute sulla natura della norma invocata dal ricorrente. Per alcuni autori, infatti, si tratterebbe – così come nel caso dell’articolo 614 bis, comma 1, c.p.c. («Con il provvedimento di condanna il giudice, salvo che ciò sia manifestamente iniquo, fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento») – di una forma di risarcimento forfettario e anticipato del danno da quantificare sempre con riferimento all’accertamento di un effettivo pregiudizio subito dal danneggiante. Per altri, invece, la disposizione in questione dovrebbe essere più correttamente ascritta alla categoria dei danni punitivi con la conseguente libertà del giudice di stabilire la somma da pagare senza essere vincolato dal danno subito e subendo.
Per la giurisprudenza si è innanzi a «una misura coercitiva indiretta a carattere pecuniario, modellata sulla falsariga dell’istituto francese dell’astreinte, che mira a vincere la resistenza del debitore, inducendolo ad adempiere all’obbligazione sancita a sua carico dall’ordine del giudice» (Cons. St., VI, 6 agosto 2012 n. 4523; Cons. St., V, 11 giugno 2012 n. 3397).
3.4. Per il Collegio la tesi che riconduce l’articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a. alla categoria dei danni punitivi non convince sia perché, per le ragioni prima esposte, è dubbio che siffatta tipologia di danni possa trovare ingresso nel nostro ordinamento sia perché, anche negli ordinamenti di stampo anglosassone, la condanna a titolo di danni punitivi è limitata ai casi di dolo o colpa grave, laddove la norma in questione nulla prevede al riguardo.
Per il Consiglio, invece, la previsione in questione si inquadra tra le sanzioni civili indirette (anche perché in tema di esecuzione di giudicato è pacifico che la posizione è di diritto soggettivo) e conseguentemente permette (ed impone) al giudice di riferirsi nella sua determinazione anche alla posizione vantata dal ricorrente.
3.5. Una volta ricostruito l’istituto in questione in termini di sanzione civile indiretta non v’è dubbio che la previsione di cui all’articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a. possa (e debba) trovare applicazione, al ricorrere di tutti gli altri presupposti previsti dalla legge, anche al caso di inadempimento delle obbligazioni pecuniarie. Non si tratta infatti di stabilire se l’ulteriore somma di denaro irrogata ex articolo 114, comma 4, lett. e) c.p.a. costituisca un indebito arricchimento del creditore ma di applicare una ‘sanzione civile indiretta’ in aggiunta ai tradizionali meccanismi di tutela del creditore rimasto insoddisfatto.
- Alla luce delle considerazioni sino a qui esposte, reputando il Collegio che nel caso di specie si ravvisano tutte le condizioni per fare applicazione della norma più volte richiamata, la sentenza appellata – che, con dovizia di argomenti, ha aderito ad un orientamento espresso da alcuni TAR ma contrario all’indirizzo del Consiglio di Stato (Cons. St., IV, 31 maggio 2012 n. 3272 e prima Cons. St., V, 20 dicembre 2011, n. 6688; ma anche Cons. St., VI, 6 agosto 2012 n. 4523; Cons. St., V, 11 giugno 2012 n. 3397) – deve essere riformata per la parte in cui ha escluso l’applicazione del pagamento di una somma di denaro per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato.
Il Consiglio ritiene infatti che sussistano i presupposti stabiliti dall’art. 114 cit. per l’applicazione della sanzione e in particolare:
a) la richiesta dell’applicazione delle sanzioni pecuniarie in questione è stata ritualmente ed espressamente formulata;
b) non emergono profili di manifesta iniquità all’emanazione di una siffatta condanna, risultando – al contrario – che l’attività adempitiva richiesta non presenti profili di particolare complessità;
c) non si reputano esistenti, a differenza di quanto sostenuto nelle difese della parte appellata, ulteriori ragioni ostative che potrebbero militare nel senso di impedire una siffatta pronuncia di condanna.
Conseguentemente
a) l’amministrazione, oltre a dare doverosamente corso a quanto stabilito nella sentenza di primo grado impugnata, dovrà corrispondere una somma pari allo 0,5% di quanto dovuto per ogni mese, o frazione di mese pari o superiore a quindici giorni, di ulteriore ritardo rispetto al termine di giorni sessanta previsto nella parte dispositiva della sentenza appellata (in termini Cons. St., IV, 31 maggio 2012 n. 3272);
b) agli adempimenti di competenza dell’amministrazione provvederà, in via sostitutiva, e con oneri a carico dell’amministrazione intimata, il commissario “ad acta” già designato dalla sentenza impugnata.
Attesa la peculiarità delle questioni giuridiche trattate, sussistono giuste ragioni per compensare tra le parti costituite le spese di questo grado di giudizio.
P. Q. M.
Il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana in sede giurisdizionale, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, accoglie l’appello e, per l’effetto, riforma la sentenza impugnata nei termini di cui in motivazione.
Spese compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità Amministrativa.
Così deciso in Palermo dal Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione siciliana, in sede giurisdizionale, nella camera di consiglio del 6 marzo 2013, con l’intervento dei signori: Guido Salemi, Presidente f.f., Vincenzo Neri, estensore, Marco Buricelli, Giuseppe Mineo, Alessandro Corbino, componenti.
F.to Guido Salemi, Presidente f.f.
F.to Vincenzo Neri, Estensore
Depositata in Segreteria
30 aprile 2013